dal Il Manifesto di Alberto Burgio
Durante gli anni ruggenti del potere berlusconiano eravamo in tanti a ritenere che il massacro della verità fosse una sua prerogativa. Assistevamo a spudorate violazioni del diritto e alla contestuale lamentazione di presunte offese subite. E pensavamo, sbalorditi e indignati: «questa odiosa modalità riflette l’essenza della destra, esprime il suo disprezzo per la democrazia». Il corollario di quei pensieri era che «noi» non avremmo fatto lo stesso: «noi», una volta giunti alla guida del Paese, avremmo detto la verità. O, quanto meno, non ne avremmo fatto strame.
Ci sbagliavamo. Stiamo affogando in un mare di bugie. Stiamo soffocando in un’aria resa irrespirabile dalla menzogna. Anche questo fatto ci costringe a chiederci che cosa sia nato prima, se Berlusconi o lo spirito di questi tempi. Non si tratta soltanto di deformazioni, di omissioni, di travisamenti ed edulcorazioni. Questa sarebbe semplicemente «ideologia», gemella siamese della politica. Siamo al rovesciamento delle cose e alla creazione di un’altra realtà. Siamo alla «neolingua» di Orwell, alla lingua «imperiale» di Victor Klemperer.Sul manifesto di questi giorni sono usciti articoli che illustrano la portata di questo fenomeno a proposito, in particolare, di due argomenti. Gianni Ferrara ha documentato le falsità che caratterizzano l’«informazione» sul referendum elettorale, Rossana Rossanda quelle che hanno inquinato la discussione sulle pensioni. Si sono propagate, nell’uno come nell’altro caso, balle belle e buone. Un referendum che, qualora vincesse, lascerebbe le cose come stanno per quanto attiene al numero dei partiti, al potere delle loro segreterie nella scelta dei parlamentari e al disastroso bipolarismo che ci affligge da una quindicina d’anni, viene sistematicamente propagandato come un rimedio capace di semplificare la geografia della rappresentanza, di arginare la «partitocrazia» e di garantire una maggiore stabilità dei governi. Quanto alle pensioni, lo sconcio è persin maggiore.
Pagine e pagine e pagine dei maggiori quotidiani hanno offerto ogni giorno statistiche e diagrammi che attestano l’importanza vitale dello scalone. Una ministra ha finto di dimettersi per dar forza all’allarme. Schiere di truci senatori e decani del giornalismo «democratico» hanno scagliato anatemi all’indirizzo di chi non si adegua alla teologia rigorista. Il governatore della Banca centrale – per non dire di illustri economisti e dei guardiani europei di Maastricht – ha profetizzato sciagure ove non si costringessero gli italiani a lavorare più a lungo. Ci ha messo del suo persino il leader designato della falange riformista discettando di un presunto «conflitto generazionale». Il tutto conti alla mano. Falsi. Costruiti su un mucchio di fandonie pur di continuare a mungere il lavoro dipendente. E di nascondere che in realtà i conti della previdenza pubblica sono in ordine, che operai e impiegati si pagherebbero in abbondanza le proprie pensioni se non fossero costretti a farsi carico anche dell’assistenza, e che in Italia i giovani sono alla frutta perché non trovano lavori buoni e per le fregature appioppate loro dalle varie «riforme» pensionistiche.
È il trionfo delle frottole. Di fronte al quale la prima reazione è la rabbia. La seconda, la voglia di fare di tutt’erbe un fascio. Ma forse vale la pena di ragionare freddamente e di cercare di fare, una volta tanto, buon uso delle altrui bugie. Per ricavarne, paradossalmente, qualche importante verità.
Cominciamo da un po’ di storia. La modernità nasce anche dalla lotta contro il segreto, architrave dell’antico regime. Il povero Kant, che di quella lotta fu alfiere, teorizzò che, per avere le carte in regola, i governi debbono porsi solo quegli obiettivi che, per realizzarsi, debbono essere resi in tutto e per tutto pubblici. Il ragionamento è chiaro: se per raggiungere uno scopo bisogna che tutti ne siano debitamente informati, ciò vuol dire che quello scopo piace alla popolazione, la quale vi vede riconosciuti i propri interessi, diritti, bisogni.
È un principio di democrazia. Ma ovviamente vale anche l’opposto. Se per fare quel che si propone un governo dice delle gran balle, è perché sa che, al contrario, quanto intende fare non può piacere alla gran parte della popolazione. Sa che i suoi intenti colpiscono interessi, violano diritti, negano bisogni di massa. Insomma, in quelle balle è scritta a chiare lettere la natura anti-popolare di quei propositi: una natura nella quale, per venire a noi (questa è la preziosa verità custodita dalle bugie che ci vengono propinate), è inciso il carattere saliente dell’attuale fase della storia del capitalismo.
Il neoliberismo è la privatizzazione di tutto. Non solo delle risorse materiali e ambientali. Non solo dei saperi e delle istituzioni pubbliche. Anche del discorso, del linguaggio, del senso comune. Mediante un uso totalitario dei media, il capitalismo neoliberista privatizza il discorso pubblico, asservendolo agli interessi particolari. Si tratta, a ben guardare, di una rottura in senso stretto epocale. Per effetto della quale la modernità è come spinta fuori da se stessa. Verso un nuovo ancien régime.
C’è una sola differenza. Mentre nell’antico regime il potere si proteggeva col segreto, nella democrazia oligarchica «moderna» esso si avvale di discorsi infarciti di bugie. Ma non è una differenza decisiva. Segreti e bugie in fondo sono affini, in quanto entrambi forme del silenzio.
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