lunedì 6 agosto 2007

HIROSHIMA: la memoria corta del Giappone


A più di sessant'anni dai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki,la questione della memoria dell'atomica in Giappone rimane controversa. Divisa tra un'opinione pubblica da sempre sensibile al tema e una politica ufficiale che ha nascosto sotto l'ombra del fungo atomico lo scomodo passato (nella foto il cenotafio nel Parco della Pace di Hiroshima)

Sconquassato da moti tellurici e terremoti politici, il Giappone si prepara a celebrare domani il 62esimo anniversario dell’atomica su Hiroshima.
La cerimonia inizierà alle 8 e15 esatte, l’ora in cui il 6 agosto ’45 un B-29 americano sganciò il micidiale ordigno. Lo schema è più o meno lo stesso dal ’47, l’anno della prima commemorazione. Nel Parco della Pace disegnato da Tange Kenzo, davanti al cenotafio per le vittime, il sindaco di Hiroshima farà appello alla comunità internazionale per l’abolizione degli armamenti nucleari. Ad assistere, come sempre, una folla numerosa.
L’intero Paese si raccoglierà davanti alla tv per ricordare i quasi 160mila morti all’istante e quelli uccisi dalle radiazioni nei mesi e negli anni successivi. Ci sarà anche il premier Abe, reduce dalla batosta elettorale su cui ha pesato come un macigno l’imbarazzante esternazione dell’ormai ex-ministro della difesa Kyuma: alcune settimane fa il ministro aveva pubblicamente giustificato i bombardamenti atomici, sommando la sua alla già lunga serie di gaffe e scandali che hanno travolto il governo. Silurato seduta stante, Kyuma in realtà non ha fatto altro che confermare la linea ufficiale prevalente fin dal dopoguerra.
Al di là delle cerimonie inevitabilmente infarcite di retorica, la memoria dell’atomica in Giappone è da sempre, infatti, una questione controversa. Drammatizzata dall’alleanza di ferro con gli Stati Uniti, è sempre stata strumentalizzata dalla classe dirigente giapponese che ha costruito la versione ufficiale della storia del secondo conflitto mondiale nascondendo, sotto l’ombra del fungo atomico, il proprio passato imperialista. Hibaku nashonarisumu, il “nazionalismo della bomba atomica” è la definizione coniata per un atteggiamento tutt’ora in voga. Basta una visita al Parco della Pace per rendersene conto.
Poco distante dal cenotafio, infatti, l’edificio dedicato alla memoria delle vittime voluto dal governo nel 2002 raccoglie le testimonianze dei superstiti della bomba. Sui pannelli illustrativi si legge che “l’8 dicembre ’41 con l’attacco a Pearl Harbour, il Giappone aprì le ostilità contro Usa, Gran Bretagna e altri, facendo il suo ingresso nella Guerra del Pacifico”. E ancora: “Il 6 agosto 1945 la prima bomba atomica fu sganciata sulla città di Hiroshima”.
Nessun riferimento a chi sganciò l’ordigno, né al fatto che il Giappone, già dieci anni prima di Pearl Harbour, aveva iniziato una guerra d’invasione in tutta l’Asia. Del resto anche i manuali di storia per le nuove generazioni liquidano i bombardamenti atomici come “disgrazie”, quasi delle calamità naturali senza responsabili. Oltre la retorica, dunque, “dimenticare” sembra la parola d’ordine per tutti i governi dal dopoguerra ad oggi. Con un’eccezione, almeno in apparenza: nel ‘64 il parlamento ha adottato i cosiddetti “tre principi anti-nucleari” in virtù dei quali il Giappone rinuncia a produrre, possedere e introdurre nel paese armamenti nucleari. Insieme all’adesione al Trattato di Non Proliferazione nel ’71, l’adozione dei tre principi valse al primo ministro Sato Eisaku il Nobel per la Pace nel ‘74. Tuttavia, nel ‘94 si scoprì l’esistenza di un patto segreto, siglato da Nixon e dallo stesso Sato nel ‘67, che consentiva alle navi americane che trasportavano armi nucleari di sostare nei porti giapponesi. Con buona pace di chi in questi decenni ha fatto di tutto per proteggere la memoria di Hiroshima e Nagasaki e promuovere la lotta contro il nucleare.
Gli hibakusha, i sopravvissuti, sono gli instancabili testimoni che girano il mondo narrando storie difficili da ascoltare, sostenuti da un movimento pacifista e anti-nucleare nato a metà degli anni ’50 su iniziativa di un gruppo di donne. Era il 1954 quando l’equipaggio del peschereccio giapponese Fukuryū Maru fu colpito dalle radiazioni emesse durante un test nucleare americano nell’atollo di Bikini. L’imbarcazione navigava al di fuori della zona considerata a rischio dalla commissione per l’energia atomica statunitense. Dopo pochi mesi, però, il radio-operatore del peschereccio morì per le conseguenze delle radiazioni. Nel frattempo il pesce contaminato era arrivato nei mercati di Tokio e Osaka. Il panico provocò una mobilitazione popolare su scala nazionale che portò, nel ’55, alla prima conferenza mondiale contro la bomba atomica. A dare avvio alla campagna che arrivò a raccogliere ben 30 milioni di firme, furono le donne di un circolo di lettura della capitale.
L’incidente aveva riprecipitato nell’incubo nucleare i giapponesi impegnati nella ricostruzione e ansiosi di lasciarsi alle spalle gli anni bui della guerra. Da allora tra la popolazione è prevalso un forte sentimento pacifista e anti-nucleare in controtendenza rispetto alla linea ufficiale. Oggi però l’indifferenza sembra avere la meglio. “Le cifre parlano chiaro”, ci dice Matsuura Masahiro, giornalista di Hiroshima attento alla questione. “Rispetto al numero degli stranieri che visitano ogni anno il Parco della Pace, quello dei giapponesi è in sensibile diminuzione. Lo stesso vale per gli studenti, che tradizionalmente vengono a Hiroshima da tutto il paese in gita scolastica. Il picco massimo si è raggiunto nell’85 con un record di 570mila visite, mentre l’anno scorso se ne sono registrate 300mila, quasi la metà”. Le gite all’estero hanno rimpiazzato i “viaggi della memoria”e se nelle scuole delle due città colpite si continua a lavorare per tramandare una cultura anti-nucleare e pacifista alle future generazioni, non si può dire lo stesso per il resto del paese. “Gli studenti di Hiroshima e Nagasaki hanno la possibilità di ascoltare le testimonianze dirette di chi ha vissuto l’inferno nucleare: gli hibakusha vengono invitati a parlare agli scolari elementari e ai loro genitori”. Ma per quanto ancora saranno possibili simili iniziative? “In effetti – dice Matsuura - il numero degli hibakusha diminuisce a vista d’occhio. A marzo di quest’anno, secondo le stime del Ministero della Sanità, se ne contavano 251.834 tra le province di Hiroshima e Nagasaki, ben 7.722 in meno rispetto allo scorso anno. Il problema si porrà quando non ci saranno più testimoni”.



di
Junko Terao Lettera22

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